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domenica 2 novembre 2014

Quando la crisi si chiama globalizzazione.

Negli anni 80 la globalizzazione compiva i primi passi, nel progetto finale dovevano scomparire le frontiere permettendo la miscelazione di attività multinazionali. Fu Theodore Lewitt, ad annunciare nel 1983 che “la globalizzazione è a portata di mano” facendo evolvere ulteriormente il concetto di “villaggio globale” teorizzato 15 anni prima da McLuhan. 

Ma a chi giova avere le frontiere aperte e libere, se non alle multinazionali con l'obiettivo di arricchirsi sempre di più, ignorando le macerie che lasciano dietro di loro con la complicità dei governanti. Il muro di Berlino, ultimo baluardo contro il capitalismo, causò con la sua caduta l'apertura della porta alle multinazionali per poter entrare nel mondo capitalistico mondiale. La globalizzazione ha portato le multinazionali a conquistare tutto il mercato, inglobando le aziende, spremendole, prendendo incentivi statali senza pericoli di perdite, ricercando sempre maggiori guadagni delocalizzando verso lidi migliori, incuranti delle croci lasciate per terra. Ma lo Stato dov'è, o meglio dov'era quando le prime aziende delocalizzavano, cosa ha fatto per parare il dramma che stava colpendo una delle più grandi nazioni industriali, niente. Ascoltare un partito di governo oggi che si sente vicino ai lavoratori, senza vedere una azione o un progetto finalizzato alla ricerca di un piano industriale vero a breve e lungo termine, dovrebbe far capire quanto interesse ha quel partito per i lavoratori. I sindacati che avrebbe dovuto difendere i lavoratori e contrastato il potere politico, hanno diversamente appoggiato questo sistema ed oggi riescono a stento a tenere a bada i lavoratori che rivendicano il diritto costituzionale del lavoro. 

 Anche Papa Francesco, nella omelia domenicale, ha dichiarato che in ogni famiglia ci deve essere un lavoro, perché senza questo dovere l'uomo perde la dignità umana e inizia un percorso drammatico nel tunnel della disperazione. Il neo-liberismo viene considerato da tutti una costola del capitolo globalizzazione, incredibilmente sottovalutata nella storia contemporanea. Nei libri di storia, specialmente nei manuali scolastici, la questione è trattata en passant riferendosi a Ronald Reagan e Margaret Thatcher: i leader conservatori che ai primi anni ottanta hanno introdotto, in politica interna, radicali riforme in senso liberista iniziando un percorso di privatizzazione fotocopiato negli anni 90 dall'Italia. Questa commistione stato-multinazionale non si è conclusa con la globalizzazione, ma avrà la sua massima espressione tra qualche anno, tramite l'accordo segreto Europa-Stati Uniti chiamato semplicemente TTIP. Ma cos'è questo TTIP? Un enorme programma di smantellamento delle residue barriere commerciali, giuridiche e politiche tra Stati Uniti, Europa funzionale alla creazione della più grande area di libero scambio del pianeta con cui il programma di liberalizzazioni e deregolamentazioni abbatterà tutti gli ostacoli sul suo cammino: dai diritti del lavoro alla proprietà intellettuale, dai servizi pubblici fondamentali fino al diritto alla salute. Si tratta del Transatlantic Trade and Investment Partnership tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, secondo step del più vicinoTranspacific Partnership che l’amministrazione Obama intenderebbe concludere prima della fine dell’anno, escludendo di fatto il Congresso dalle trattative in corso e accelerando i tavoli a porte chiuse con i Paesi partner (per la precisione: Giappone, Messico, Canada, Australia, Malesia, Cile, Singapore, Perù, Vietnam, Nuova Zelanda e Brunei) e gli incontri segreti con gli oltre 600 rappresentanti delle multinazionali. 

I contenuti e i termini delle trattative in corso sono di fatto inaccessibili agli organi di informazione e anche ai parlamenti dei Paesi coinvolti, se non a gran parte degli stessi governi, è precluso un accesso integrale alle bozze sugli accordi in ballo, come denunciato da Wikileaks (ve lo ricordate?). Grazie alla tecnica di lasciare nell'ignoranza la popolazione, il progetto avrà una corsia preferenziale e quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi; negli anni 90 qualcuno urlava sul pericolo della globalizzazione, ma nessuno lo ascoltava, oggi qualcuno urla sul pericolo dell'applicazione del TTIP, ma nessuno lo sta ascoltando. Ma se abbiamo capito del danno fatto dalla globalizzazione, perché non credere alle favole sul TTIP?  Il partito prende a braccetto il lavoratore come il boia prende un condannato a morte, tutte e due vanno verso il patibolo della morte, uccidendo la dignità dell'essere. Di fronte a scenari come questi si evidenzia tutta la miopia delle politiche dell’Unione messe in atto con l’austerity, il fiscal compact, gli accordi come TTIP e TISA, l’eterna melina sul coordinamento delle politiche degli Stati membri. 

Qui tuttavia una strategia chiaramente perseguita c’è: mettere la finanza pubblica con le spalle al muro: non per «liberalizzare», ma per privatizzare tutto l’esistente: imprese e servizi pubblici, beni comuni, territorio, ma anche esistenze individuali e percorsi di vita; mettere con le spalle al muro il lavoro, per privarlo di tutti i diritti acquisiti in due secoli di lotta di classe; instaurare il dominio di una competitività universale: non, ovviamente, tra pari, ma dove i più forti siano liberi di schiacciare i più deboli. Credo che possiamo adottare in toto la conclusione di Rampini su Repubblica: “Già all’inizio del novecento il mondo conobbe una prima forma di globalizzazione economica senza una adeguata governance politica: fu travolta da protezionismi, razzismi e ideologie totalitarie, dalla Grande Depressione e due guerre mondiali. Quando l’economia corre troppo in avanti e la politica non regge il passo, si creano le condizioni per contraccolpi brutali”. Saremo pronti?

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