Le mie parole saranno
come il polline di un fiore, andranno a depositarsi in alcuni fiori, ma non
avranno la forza di collocarsi su tutti i fiori. Ma se ogni fiore, riuscisse a
trasmettere positivamente il proprio polline, forse un giorno avremo la
copertura totale dei campi.
La società che stiamo
vivendo si è trasformata negli ultimi anni, passando da una società
patriarcale, ad una società globale. Oggi abbiamo una vita frenetica, sempre alla
rincorsa dell’ultimo cellulare, del numero dei tatuaggio per esprimere il proprio
essere, ma che in realtà è diventato un status symbol, dell’auto sempre più voluminosa,
del viaggio nei paesi esotici, nel cambiare l’abbigliamento tutti i giorni per
poi buttarlo via a fine stagione.
Tutto questo ci ha fatto
perdere i valori della vita, della solidarietà, della socializzazione, del
rapporto tra vicini di casa. La globalizzazione ha portato evidenti squilibri
economici, ma anche culturali, facendo fatica a evolversi verso il domani.
Nella globalizzazione, sono inseriti anche gli individui e non solo gli oggetti
o l’economia; oggi vediamo persone che lasciano o scappano dalla loro vita
quotidiana, persone di tutte le età, bambini, donne, ragazzi che evadono dalla
dura realtà per invadere popoli culturalmente distanti da loro.
Affrontano il mare nelle
barche dal destino sconosciuto, tanti riescono ad arrivare sulla terra, ma
tanti vedono la loro fine prima del tempo, purtroppo la morte con quella
maledetta falce, non guarda in faccia se la vittima è un bimbo, un ragazzo, una
donna, non fa distinzione alcuna; verrebbe voglia di dire che la morte è la più
democratica, se non fosse che in gioco ci fossero delle vite umane.
Ma la nuova società,
quella che dalla frenesia della vita che ci fa scordare i figli nell’auto, quella
che ci fa lasciare che i figli a 16 anni muoiano di droga lontani chilometri da
casa, quella che ci fa lasciare i cani sull’autostrada perché ingombrano la
loro esistenza sperando che un giorno non abbandonino i figli, è la stessa che
sta continuamente protestare contro chi cerca una speranza di vita.
Quella foto con il
cellulare in mano potrebbe essere di chiunque, sicuramente è di una persona
umana globalizzata, per questo non dobbiamo guardare i confini invisibili all’occhio
umano che ci separa noi da gli altri, impariamo a non differenziare i popoli e
le persone, ma accettiamoli e aiutiamoli nell’integrazione.
E’ vero, sono tante
persone, non abbiamo lavoro per tutti, non abbiamo case da poterli consegnare,
ma possiamo dargli un po’ della nostra serenità, farli sentire accolti affinché
si possano integrare, solidarizzando lasciando un pezzetto del nostro benessere.
Pensiamo se in quella
foto ritraesse nostra figlia o figlio che si fosse allontanata/o per cercare
fortuna o per scappare dalla guerra e invece non è riuscita/o a raggiungere la
meta ambita; come ci dovremmo sentire senza potergli più parlargli, vederlo,
toccarlo? Leviamo veramente i confini dalla nostra testa, eliminiamo i
preconcetti, iniziamo a pensare che siamo tutti della stessa pelle, della
stessa razza; iniziamo a comprendere che se casca un aereo con 200 persone decedute,
non dobbiamo tirare un sospiro di sollievo nel sapere che non c’è nemmeno un
italiano a bordo, perché sono sempre 200 persone di famiglia, sempre 200
persone umane che hanno lasciato nella disperazione qualche mamma, qualche
padre o figlio o moglie.
Sicuramente in quella
foto, quel cittadino aveva pochi soldi, nessuna valigia, quindi senza vestiti,
forse aveva con se alcune fotografie della sua famiglia, unico legame con la
famiglia.
Questo mi fa ricordare
quando, durante il terremoto dell’Aquila, le persone ti facevano andare in casa
per recuperare alcune foto, segno dell’attaccamento alle proprie origini che nel
momento di difficoltà, ti davano speranza.
Ma in quel barcone della non
speranza, non era solo, ma era venuto in compagnia di altri corpi ora stesi come
lui sulla spiaggia, alcuni con un documento, altri senza nessun nome. Forse
divenuti amici nel tragitto della morte.
Mi immagino quando gli
italiani andarono in guerra ad occupare alcune terre di questi sconosciuti, dove
alcuni ritornarono, ma in tanti ci morirono; alcuni di questi ragazzi rimasero
senza nome, messi in una tomba dove nessuno potrà piangere il proprio caro perché
ignoto, ma questi avevano un destino già segnato dagli eventi.
Simile l’epilogo ma
diverso nelle cause, questa persona rimarrà sconosciuta per le autorità, rimarrà
sconosciuta per i parenti che non la vedranno più; ma è questa la società che
vogliamo? Una società egoista, una società sempre di corsa all’ultimo modello
di cellulare? Una politica che racconta soluzioni ad ogni evento luttuoso? Sinceramente
mi ci vedo poco, forse è veramente l’ora di fermarci e pensare a tutti noi non come
fratelli, ma come persone umane.

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