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martedì 11 agosto 2015

La società ha necessità di fermarsi e di interrogarsi per ritrovare se stessi.



Le mie parole saranno come il polline di un fiore, andranno a depositarsi in alcuni fiori, ma non avranno la forza di collocarsi su tutti i fiori. Ma se ogni fiore, riuscisse a trasmettere positivamente il proprio polline, forse un giorno avremo la copertura totale dei campi.


La società che stiamo vivendo si è trasformata negli ultimi anni, passando da una società patriarcale, ad una società globale. Oggi abbiamo una vita frenetica, sempre alla rincorsa dell’ultimo cellulare, del numero dei tatuaggio per esprimere il proprio essere, ma che in realtà è diventato un status symbol, dell’auto sempre più voluminosa, del viaggio nei paesi esotici, nel cambiare l’abbigliamento tutti i giorni per poi buttarlo via a fine stagione. 


Tutto questo ci ha fatto perdere i valori della vita, della solidarietà, della socializzazione, del rapporto tra vicini di casa. La globalizzazione ha portato evidenti squilibri economici, ma anche culturali, facendo fatica a evolversi verso il domani. Nella globalizzazione, sono inseriti anche gli individui e non solo gli oggetti o l’economia; oggi vediamo persone che lasciano o scappano dalla loro vita quotidiana, persone di tutte le età, bambini, donne, ragazzi che evadono dalla dura realtà per invadere popoli culturalmente distanti da loro. 


Affrontano il mare nelle barche dal destino sconosciuto, tanti riescono ad arrivare sulla terra, ma tanti vedono la loro fine prima del tempo, purtroppo la morte con quella maledetta falce, non guarda in faccia se la vittima è un bimbo, un ragazzo, una donna, non fa distinzione alcuna; verrebbe voglia di dire che la morte è la più democratica, se non fosse che in gioco ci fossero delle vite umane.


Ma la nuova società, quella che dalla frenesia della vita che ci fa scordare i figli nell’auto, quella che ci fa lasciare che i figli a 16 anni muoiano di droga lontani chilometri da casa, quella che ci fa lasciare i cani sull’autostrada perché ingombrano la loro esistenza sperando che un giorno non abbandonino i figli, è la stessa che sta continuamente protestare contro chi cerca una speranza di vita. 


Quella foto con il cellulare in mano potrebbe essere di chiunque, sicuramente è di una persona umana globalizzata, per questo non dobbiamo guardare i confini invisibili all’occhio umano che ci separa noi da gli altri, impariamo a non differenziare i popoli e le persone, ma accettiamoli e aiutiamoli nell’integrazione. 


E’ vero, sono tante persone, non abbiamo lavoro per tutti, non abbiamo case da poterli consegnare, ma possiamo dargli un po’ della nostra serenità, farli sentire accolti affinché si possano integrare, solidarizzando lasciando un pezzetto del nostro benessere.


Pensiamo se in quella foto ritraesse nostra figlia o figlio che si fosse allontanata/o per cercare fortuna o per scappare dalla guerra e invece non è riuscita/o a raggiungere la meta ambita; come ci dovremmo sentire senza potergli più parlargli, vederlo, toccarlo? Leviamo veramente i confini dalla nostra testa, eliminiamo i preconcetti, iniziamo a pensare che siamo tutti della stessa pelle, della stessa razza; iniziamo a comprendere che se casca un aereo con 200 persone decedute, non dobbiamo tirare un sospiro di sollievo nel sapere che non c’è nemmeno un italiano a bordo, perché sono sempre 200 persone di famiglia, sempre 200 persone umane che hanno lasciato nella disperazione qualche mamma, qualche padre o figlio o moglie.


Sicuramente in quella foto, quel cittadino aveva pochi soldi, nessuna valigia, quindi senza vestiti, forse aveva con se alcune fotografie della sua famiglia, unico legame con la famiglia. 


Questo mi fa ricordare quando, durante il terremoto dell’Aquila, le persone ti facevano andare in casa per recuperare alcune foto, segno dell’attaccamento alle proprie origini che nel momento di difficoltà, ti davano speranza.


Ma in quel barcone della non speranza, non era solo, ma era venuto in compagnia di altri corpi ora stesi come lui sulla spiaggia, alcuni con un documento, altri senza nessun nome. Forse divenuti amici nel tragitto della morte.


Mi immagino quando gli italiani andarono in guerra ad occupare alcune terre di questi sconosciuti, dove alcuni ritornarono, ma in tanti ci morirono; alcuni di questi ragazzi rimasero senza nome, messi in una tomba dove nessuno potrà piangere il proprio caro perché ignoto, ma questi avevano un destino già segnato dagli eventi.


Simile l’epilogo ma diverso nelle cause, questa persona rimarrà sconosciuta per le autorità, rimarrà sconosciuta per i parenti che non la vedranno più; ma è questa la società che vogliamo? Una società egoista, una società sempre di corsa all’ultimo modello di cellulare? Una politica che racconta soluzioni ad ogni evento luttuoso? Sinceramente mi ci vedo poco, forse è veramente l’ora di fermarci e pensare a tutti noi non come fratelli, ma come persone umane.




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